“Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.
Così recita l’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Coerentemente a quanto sancito, da qualche tempo sono sempre più le adesioni alla corrente di pensiero secondo cui Internet è un diritto meritevole di tutela a livello nazionale e sovranazionale.
I consensi sono cresciuti a tal punto che il consiglio sui diritti umani delle Nazioni Unite ne ha recentemente stabilito, è notizia di qualche giorno fa, lo status di diritto fondamentale di ogni individuo: pertanto ora sarà compito degli Stati membri definire sistemi idonei di tutela, al pari di altri diritti fondamentali già riconosciuti.
L’Onu stabilisce quindi che i cittafini debbano avere gli stessi diritti online e offline, a partire proprio dalla libertà di espressione: un grosso passo avanti, che va ad aggiungersi alla bocciatura (seppur momentanea) di ACTA da parte del Parlamento europeo, il trattato che si poneva l’obiettivo di regolamentare la pirateria e la contraffazione online contro cui si è schierata una trasversale mobilitazione internazionale.
C’è da considerare, però, che la dichiarazione largamente condivisa della libertà di Internet va ad inseririsi in un contesto mondiale molto eterogeneo: basti pensare alla Cina, la cui legislazione dichiara i provider responsabili dei contenuti video dei loro utenti; o alla Russia, il cui governo vorrebbe costringere i provider a fornire la possibilità di censurare i siti “estremisti” (o per meglio dire, sgraditi), posizione che ha provocato l’auto-oscuramento per protesta di Wikipedia (peraltro avvenuto, in altre occasioni, anche in Italia).
Anche in Occidente, infatti, la questione della “sorveglianza” di Internet è molto discussa: il New York Times, ad esempio, ha raccontato come le richieste di dati personali degli utenti che le autorità statunitensi inoltrano ai fornitori di connettività siano cresciute costantemente negli anni, fino a raggiungere un picco di 1,3 milioni nel 2011.
Mentre dall’ultimo Google transparency report, pubblicato lo scorso giugno, si delinea chiaramente un tentativo di ingerenza da parte dei governi locali – non sempre assecondato dai provider – che consiste principalmente nella richiesta di rimozione di contenuti considerati, spesso arbitrariamente, illegali.
La battaglia per un web libero, insomma, è aperta e imperversa a diversi livelli: attivisti e lobbisti, governi e giganti tecnologici, democrazie e regimi. Un fenomeno planetario, che merita di essere trattato e approfondito da tutti: la questione della governance di Internet riguarda tutti e le sue implicazioni sono e saranno sempre più tangibili nella vita di ciascuno di noi.
Per questo è indispensabile che, anche in Italia, venga garantito l’accesso alla Rete da una legge nazionale, senza limitazioni di sorta: solo così Internet potrà diventare un autentico bene comune, attraverso il quale esercitare il proprio diritto all’informazione.